IL CONCETTO DI KUMPA'NIA (SGUARDI NOMADI)Nel 1995 la Quinta Circoscrizione (come allora si definiva il distretto amministrativo che oggi chiamiamo Municipio), zona Roma est, avviò una ricerca fotografica sul suo territorio. L’intenzione era di cogliere iconograficamente un momento di passaggio e trasformazione nell’imminenza dei lavori dello SDO (Sistema Direzionale Orientale).
Un’intuizione che, in una delle prefazioni del catalogo che accompagnava le due mostre che furono successivamente realizzate, fece scrivere a Sandro Iovine “La speranza è che iniziative come quella accolta dalla V Circoscrizione divengano punti cardine di una estesa politica di documentazione, non casuale ed affidata all'intervento di un'iniziativa privata, ma sollecitamente mirata a fissare nel tempo le trasformazioni del territorio non disgiuntamente da quelle della società”. Il tentativo era, nell’idea lungimirante della presidentessa protempore Loredana Mezzabotta, di fissare una memoria del territorio, delle sue realtà industriali e agricole, della sua variegata umanità e delle sue diverse forme di aggregazione. Nello studiare collettivamente il territorio, emerse il fatto che, in una zona vicina al ponte ferroviario di Viale della Serenissima, esisteva un piccolo campo nomadi. Una piccola comunità, poche famiglie, bambini scolarizzati e seguiti dalla Circoscrizione. Da lì a poco non sarebbe rimasto più nulla dell’insediamento. Le F.S. avevano progettato sul quell’area una stazione ferroviaria ed un parcheggio: gli abitanti del campo avrebbero avuto un’altra sede dove ricostruire la loro comunità. Fotografare in un campo nomadi richiedeva qualche cautela da prendere, più per i residenti lì che per noi fotografi. Facilmente si sarebbero create diffidenze e difficoltà a relazionarsi con noi. Il metodo, in questi casi, è uno solo: togliersi la macchina fotografica dal collo ed avvicinarsi alle persone in maniera diretta. Ci hanno aiutato due mediatori culturali, data la possibilità, soprattutto, che gli adulti non vedessero bene il fotografare ambienti e persone. Loro, del resto, non avevano tutti i torti date le molteplici campagne di stampa avverse a Rom e Sinti. La prima “sessione fotografica” non fu fotografica ma una semplice chiacchierata, prendendo un tè appositamente preparato per noi….un’ottima accoglienza, semplice, efficace per capirsi. Il risultato delle sessioni fotografiche successive credo si veda dalle fotografie: sguardo sempre in macchina, diretto e senza timidezza o sfida. Solo la voglia di rompere un accerchiamento. Contrasta con quegli sguardi la “ruvidezza” della pellicola analogica, granosa e molto contrastata nonostante l’uso di una vecchia Ilford PanF, 50 asa…forse un errore di impostazione dell’esposimetro. Un errore da archeofotografia, oggi quasi impossibile che accada col digitale. Una nota credo sia necessaria: per le foto che presento, e di cui sono responsabile, valgono le norme relative alla tutela della privacy (anche se ormai sono trascorsi oltre trent'anni). |