pasquale aiello
foto e progetti
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STAZIONE TIBURTINA - EX SCALO MERCI (1997)

Gilles Clement, nel suo breve ma denso testo del 2005, definì il paesaggio con tre diversi gradi.
Dopo il primo paesaggio (la natura incontaminata) ed il secondo (quello antropizzato, progettato dall’uomo) il terzo paesaggio diventa “uno spazio di transizione, un territorio di residui, in cui la natura si riappropria degli spazi abbandonati o dismessi dall’uomo, come i bordi delle strade, le zone industriali dismesse….”
Questa definizione di terzo paesaggio, apparentemente sintetica, in realtà è molto complessa se si analizza quanto il paesaggio possa essere stato modificato, modellato e sfruttato a partire dalla rivoluzione industriale. Ed in particolare con le cementificazioni ed ulteriori industrializzazioni dal dopoguerra fino ai nostri giorni.

La fotografia, negli anni settanta e ottanta, si riappropria della capacità di guardare in maniera critica al paesaggio ed alle sue trasformazioni, acquisendo consapevolezza del suo valore. Non più “coreografia” ma soggetto (quasi) da tutelare e conservare ancor di più dopo i citati scempi e oltraggi delle urbanizzazioni ed industrializzazioni, spesso senza limiti o regole.
Molti fotografi passano dal “momento decisivo” alla “lentezza dello sguardo”, dall’istante da cogliere (anche) durante le tumultuose giornate degli anni sessanta e settanta all’osservazione lenta e attenta di ciò che si presenta davanti all’obbiettivo nelle varie declinazioni di paesaggio….certi che attimo dopo attimo la sola cosa che poteva cambiare era la luce del giorno ma non certo l’oggetto della ripresa.
Mi piace ricordare che questo nuovo modo di approcciarsi al paesaggio trovò la sua massima espressione nel progetto pubblico francese “Datar” (1984/1989)ed in quello italiano del “Viaggio in Italia” (1984) promosso da Luigi Ghirri. Entrambi i progetti coinvolsero grandi fotografi.
Una “lezione” di rilevante portata la quale permeò culturalmente moltissimi altri fotografi, anche non professionisti, che, nel loro piccolo, cercarono di porre al centro delle loro ricerche e progetti proprio il paesaggio cogliendo anche le sue interazioni con l’urbanistica e la estesa antropizzazione degli spazi.

Ho pensato che questa premessa fosse necessaria poiché ho sempre ritenuto importante, oltre lo scatto fotografico, anche lo studio e la ricerca di cosa sia la fotografia e quali fossero le problematiche, di varia natura, che venivano sollevate e affrontate attraverso essa. Insomma, negli anni ottanta/novanta il territorio diventò un mio grande centro d’interesse e (come sottolineava con ironia un mio grande amico, Antonio Messina) passai dal “fotografare gli operai in fabbrica alle fabbriche senza operai”…dalla movimentata conflittualità degli anni settanta/ottanta all’archeologia industriale che derivava dall’abbandono della centralità “fabbrica” passando a nuovi modi di produzione più disgreganti e parcellizzati.

Il territorio di Roma, città di servizi ma anche con una insospettabile archeologia industriale ed un vasto territorio agrario boschivo che si andava modificando in maniera importante, è diventato il focus su cui concentrare progetti fotografici. Ed anche con un metodo preciso: studiare gli ambienti nelle loro strutture e cercare di coglierne la storia, effettuare lunghe sessioni di ripresa, raccogliere in brevi testi le descrizioni dei luoghi ed il senso di fotografarli.
La collaborazione con Enti o privati era possibile e facilitava le cose.
In mancanza di questa, si agiva direttamente superando qualche ostacolo “fisico” come un cancello o un muro decrepito. Oltre questi “limiti” si apriva un mondo di architetture e spazi, polvere, tracce, segni di tempo sedimentato.
Roberto Peregalli, a pagina 80 del suo libro “I luoghi e la polvere”, con forza ed efficacia, descrive questo “passaggio”: “Passeggiare senza meta tra le rovine, di qualsiasi epoca esse siano, è un’esperienza entusiasmante. Il tempo è come improvvisamente sospeso. Il mondo quotidiano appare lontano. Il rapporto che si è creato tra la natura e l’opera ha generato un miracolo, un equilibrio fragile e sublime tra il tempo e la bellezza. Un racconto della solitudine e del silenzio.

Ho letto il libro alcuni anni dopo le ricerche effettuate ed ho meditato spesso su questa frase, poiché mi sono ritrovato nella sensazione descritta, la stessa provata ogni qualvolta mi sia trovato a fotografare rovine di ambienti industriali, luoghi abbandonati, e, in essi, dettagli di tracce, segni di persone o attività lavorative oppure la riconquista degli spazi ad opera della natura. Ed è vera la sensazione di lontananza del mondo esterno, di sospensione del tempo, di ascolto ovattato dei rumori provenienti fuori dai siti. Vere anche altre due sensazioni e cioè l’estrema fragilità dei luoghi e lo stratificarsi del tempo in maniera tangibile e visibile.

Entrare nell’ex Scalo Merci della Stazione Tiburtina non ha fatto eccezione a quanto detto anche se, diversamente da altri ambienti industriali “chiusi” a volte vere cattedrali laiche del lavoro, strutture in cemento, ferro, mattoni e vetro, questo grande spazio si presentava con vaste aree verdi e grandi alberature, binari, scambi, vagoni e qualche motrice di manovra…oltre a manufatti legati al deposito ferroviario e tracce di vecchie dotazioni legate all’uso di locomotive a vapore. Un mondo nuovo da esplorare e splendidamente “vecchio” nella sedimentazione del tempo.
Documentare l’ex Scalo era parte del lavoro sul territorio della “V Circoscrizione”, ma per varie circostanze è diventato un progetto autonomo durato in progress dal 1997 al 2006, e, forse perché non lo consideravo completato, non l’ho mai inserito nel mio sito web.
Anche se le foto raccolte descrivono un periodo molto lungo, non ho potuto consideralo completo per via delle tante parti mancanti ancora al progetto complessivo, progetto che riguardava tutta l’area della Stazione Tiburtina, di Pietralata e della controversa scelta di non gestire in maniera sostenibile la tangenziale Est. Inoltre l’ex Scalo merci è stato svuotato della sua storia lasciando, qua e là, tracce di manufatti non ancora destinati ad un uso specifico e sparse tracce di piante ed alberi che, come si vede dalle foto, costituivano, invece, una solida connotazione dell’area ancorché destinata ad un uso ferroviario.

Avere avuto, in questo caso, l’autorizzazione da parte di F.S, si è rivelato decisivo per poter fotografare con molta libertà in un’area ancora interessata da movimento ferroviario. In particolare, devo riconoscere al direttore dell’area, Carlo Mariotti (dirigente delle FS che seguì più tardi anche i lavori della nuova stazione progettata dall’arch. Paolo Desideri), una infinita pazienza oltre ad un grande interesse nel seguire me e altri tre fotografi del mio gruppo, Antonio De Carolis, Sergio Mauriello e Mauro Navarra durante le riprese, spesso fornendoci dettagli sugli spazi o condividendo con noi l’idea di documentare un grande cambiamento. Nel tempo, ritornando nell’area per oltre nove anni (è stato un progetto lunghissimo nel tempo anche se con periodi di lunghe assenze), la condivisione ideale di Carlo Mariotti riguardo il nostro progetto ci ha permesso di comprendere compiutamente le sue grandi capacità tecniche e, con poca sorpresa, anche fotografiche.

Eravamo al corrente che da lì a qualche anno l’area sarebbe stata totalmente trasformata e, nelle intenzioni di molti, riqualificata. Su questo tema della riqualificazione (un residuo dei grandi progetti dello SDO) si sono giocate molte “partite” tra cittadini, enti locali, politica, urbanisti (e architetti). Ad oggi posso dire che la sola opera totalmente nuova è la Stazione Cavour (ex Stazione Tiburtina) progettata da Paolo Desideri.
Un’idea nuova, un progetto che doveva riconnettere i quartieri Pietralata e Nomentano creando una stazione-ponte (nelle intenzioni di chi ha promosso il progetto, un “boulevard pedonale” a nove metri di altezza dai fasci dei binari) tra le due zone di Roma sempre disconnesse dalla grande “trincea” ferroviaria costituita dallo Scalo Tiburtino e che sarebbero dovute essere riconnesse e riqualificate con attività universitarie e sportive.
Intorno alla stazione, purtroppo, poco o nulla. A meno di voler considerare le opere con destinazione privata a ripiano delle spese sostenute dal Gruppo F.S., come la nuova sede della BNL, enorme “nave” di vetro/specchi e metallo sorta a fianco della nuova stazione ferroviaria. Oppure le pessime ristrutturazioni dei monconi della tangenziale est, altra occasione perduta di poter realizzare una valorizzazione ecologica e sostenibile del tratto stradale come era nel progetto della “Tangenziale verde” proposta dall'Associazione RES e dall’architetto Nathalie Grenon. Tralascio l’indecoroso abbandono dell'Istituto Ittiogenico sempre nei pressi della vecchia stazione tiburtina.
Tirando le somme rimangono nell’area due opere moderne ed avanzatissime cui fa da contraltare il vuoto di tutto quello che non si è realizzato…scavi, demolizioni, disboscamenti cui dovevano seguire altre opere che sono rimaste sulla carta. Qualcuno, nell’intento di riqualificare quello che, a torto, si riteneva una rovina o un degrado ha paradossalmente creato vero degrado perché l’attuale vuoto, tra un fascio di binari dell’alta velocità ed un quartiere ancora disconnesso, non possiede quell’aura che il tempo le aveva dato e che si poteva valorizzare salvaguardandola.

Ho volutamente rimarcato questi aspetti perché, come si vede dalle mie immagini (alcune riprese sono esterne allo scalo ed altre interne), l’area appariva come un grande bosco urbano. Oggi vi convivono residui di alberi con treni ad alta velocità, vecchi manufatti ferroviari (ormai pochi) che versano in stato d’abbandono, gallerie stradali, parcheggi, viali sterrati e aree di cantieri non aperti o non ancora chiusi.
Nello stesso anno avevo già fotografato le aree prospicenti lo scalo ferroviario. A Via Caraci vi era un campo di calcio molto frequentato e circondato da alti alberi, su Via dei Monti di Pietralata esistevano molte piante di alto fusto, c’era molto verde ma sul quale incombevano tutti i lavori stradali a servizio della nuova tangenziale e della nuova stazione ferroviaria. Oggi tutto è stato estirpato ed il campo di calcio è un piccolo deserto con qualche vecchio pallone lasciato qua e là dopo l’ultimo lontano allenamento della squadra locale.
La scoperta della vasta area verde dell’ex scalo ferroviario fu un’autentica sorpresa, camminando su traversine, tra binari e breccia di massicciata, superando brevi file di vagoni o qualche locomotore ormai fermo da tempo.
Primeggiava il “Viale dei Tigli”, un sentiero alberato che era costeggiato da manufatti ferroviari e che ombreggiava diversi binari terminali. Un viale che spiccava tra gli altri agglomerati di piante e alberi, e che aveva mantenuta intatta la sua fisionomia nel tempo. Un bene da tutelare citato addirittura in un progetto che l’avrebbe visto protagonista accanto ad un enorme capannone in mattoni e capriate da anni in attesa di trasformarsi in aule universitarie. Nel frattempo il capannone è diventato rifugio di immigrati sfuggiti da varie guerre nell’esperimento gestito dal Baobab Experience. Anche questa esperienza, neanche a dirlo, è terminata dopo lo sgombero di chi vi dimorava.
Qui e qui due mie foto post sgombero con due chiari messaggi.

Potrei dire che l’area versava in un “degrado ordinato”, tutto sembrava potesse essere valorizzato con una cura dell’ambiente. Vi era un’atmosfera che definirei sospesa in attesa di scelte e decisioni.
Tuttavia eravamo coscienti del fatto che, affinché quello che appariva abbandono potesse essere estirpato e trasformato in qualcosa di “produttivo”, bisogna qualificarlo come “degrado”.
Anche qui mi ricorre un’altra frase di Roberto Peregalli a Pagina 84 del suo libro citato: “La rovina si è trasformata in degrado. Questo è il reale passaggio di stile tra l’Ottocento ed il Novecento. Le rovine (nell’800), in quanto tali, andavano salvaguardate e protette, quali vestigia di un’epoca che non esiste più. Testimonianza di un accadimento che in qualche modo andava conservato. Come “degrado” tutto ciò non ha più senso. Il degrado va rimosso. Un ambiente degradato è un luogo dove può succedere di tutto, in cui la vigilanza scompare, la sicurezza viene meno. Il degrado è un’onta per una civiltà che fa del “grado” di progresso il suo vanto nel mondo.”

Nella seconda parte di questo progetto pubblicherò le conseguenze delle scelte e decisioni che citavo prima…tenendo in mente che queste foto rappresentano un “prima” che non esiste più.

Volevo concludere ricordando un evento tragico avvenuto il 18 ottobre 1943. Dallo scalo merci tiburtino partirono 18 carri bestiame con oltre 1200 ebrei romani rastrellati due giorni prima nel ghetto di cui 820 morirono subito dopo l’arrivo nei forni crematori, gli altri avviati ai campi di lavoro.
Ne tornarono solo 16.
Almeno in questo caso, nel 2024, si è costruito un luogo della memoria al binario 1 della Stazione Tiburtina. Purtroppo il vero binario da cui partì il convoglio, il 18 e che era in una zona interna allo scalo, per i lavori di cui ho parlato, oggi non esiste più.
Su questa storia tragica vi invito a leggere questo articolo dal blog di Lorenzo Grassi che cita anche scrittori come Robert Katz (Il sabato nero -1973) ed Elsa Morante (La storia - 1974).
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